mercoledì 7 luglio 2010

Antonio Marchi, Cinesperimentalista



COME UN CANTO. APPUNTI E IMMAGINI DI UN REGISTA DIMENTICATO
(Italia, 2009, 25’); a cura di Claudio Giapponesi, Mirko Grasso, Paolo Simoni
Produzione: Kiné – Home Movies – Istituto Storico Parri
Immagini 16mm di Antonio Marchi (1940-1945)
Compilazione dei film amatoriali di Antonio Marchi, girati in 16mm tra il 1940 e il 1945, a Parma e dintorni. Le immagini sono state sonorizzate ed è stato aggiunto un testo ricavato da appunti e note critiche dello stesso Marchi (1923-2003), giovane intellettuale e filmmaker formatosi sotto il fascismo, che subito dopo la guerra – per circa un decennio – si è contraddistinto per un’intesa attività come critico, regista e produttore cinematografico.

Qualcuno ricordava Marchi, ragazzo con la cinepresa, all’inizio della Guerra, nel periodo dopo l’8 settembre, e nei giorni della Liberazione. Questo scorcio di tempo è importantissimo per Marchi, che compì vent’anni nel 1943: è il periodo della sua formazione, ma anche dei suoi primi lavori di cineasta e intellettuale. Ora queste preziose immagini, dense e rarefatte, a colori e in bianco e nero, finalmente sono state recuperate. Che farne? Prima di tutto è necessario guardarle con attenzione. I film amatoriali di Marchi sono estremamente significativi, perché documentano la sua storia e costituiscono una parte significativa e assai preziosa della memoria filmica del territorio parmigiano, e perchè possiedono un valore estetico e una poeticità non comuni. (…)
Nelle bobine 16mm sono assemblati film montati o sequenze girate senza un ordine apparente. Si susseguono scene costruite da Marchi con una regia, di difficile interpretazione e collocazione, e riprese “libere”, non montate, del paesaggio urbano e rurale. Una sequenza (montata) si apre con una giovane donna, la sorella di Antonio, che stende i panni in giardino. Poi la vediamo leggere un libro su una sedia a dondolo prima che venga raggiunta da altre due donne che intendono lavorare a maglia. Infine, arriva un’altra donna in bicicletta. Reca un mazzo di fiori e un giornale si legge “discorso di Hitler”. In questo quadro di estrema serenità, in cui non casualmente entra in scena la rivista Cinema, non può che dare un senso di vaga ma profonda inquietudine il riferimento all’attualità bellica. Il fascino di queste immagini è racchiuso anche nel suo mistero.
Il castello Monteghiarugolo è il vero protagonista dei film di Marchi, filmato come se fosse un personaggio austero, un testimone della Storia, di tanti secoli e della Guerra in corso. Il torrione del castello è un punto privilegiato d’osservazione (e di ripresa) che domina la pianura. In una sequenza compare una data, segnata sulla neve: il primo giorno dell’anno, “1 gennaio 1944”. È l’inverno più duro, un gruppo di donne gioca col cane, i giovani sono al fronte o saliti in montagna. Il giovane Marchi è uno “sbandato”, nascosto nel castello, forse le ragazze sono andate a trovarlo, e da lì filma il suo mondo, fatto di pietre e di particolari architettonici. Nella stessa pellicola giuntate subito dopo ci sono le sequenze estive di un gruppo di ragazzi spensierati al mare in Liguria, su una barca s’intravede Antonio. Ma la guerra dov’è? Nulla ci fa figurare del momento, se non, brevemente, la ripresa di una nave affondata.
Marchi ritrae con costanza il paesaggio: un ruscello, un ponte, una baracca, l’acqua che scende da un rivolo in mezzo alle pietre, un borgo nella nebbia invernale, il campanile di una chiesa dai vetri delle finestra, la pioggia, strade fatte con pietre irregolari, forme riflesse nell’acqua di una vasca, case in pietra dura. Filma gli incontri con le persone care. A Casarola s’intrattiene con amici. C’è il piccolo Bernardo Bertolucci che scorazza e gioca col padre Attilio, Antonio stesso finisce ritratto nel film, è l’unico momento in cui lo vediamo solo. Sullo sfondo, gli Appennini parmensi. Anche il paesaggio cittadino interessa Marchi. Una Parma autunnale e invernale, filmata nelle periferie. Figure di ragazzini dei bassi fondi si aggirano tra scambi ferroviari, il gasometro e le fabbriche. La via Paal e i ragazzi dei bassifondi del cinema americano non sono soggetti così lontani. Ma lo sguardo è di un obiettivo interessato alla plasticità e alla fissità dei volti e dei corpi, tradita solo per un momento da un sorriso involontario di un ragazzo in posa. E poi quegli stessi corpi in movimento, che scivolano sul fiume ghiacciato o si gettano nella lotta. La cinepresa di Marchi vuol cogliere o stilizzare una realtà ben diversa da quella del cinema di cartapesta. Il film più anomalo di Marchi ha un titolo tratto da una sorta di sceneggiatura, Una gita ai famosi prati di Lubecca. Una presa in giro dell’autoritarismo che mette in scena un gruppo di collegiali in gita capeggiate dalla direttrice, in un film femminile interpretato da ragazzi travestiti.
Infine, le sequenze più lunghe. L’interno del castello, e le merlature da cui si scorgono i tetti e il fumo dei comignoli, l’inverno a Monteghiarugolo tra il ’44 e il ‘45. Marchi passò molto tempo nascosto nel castello, la sua dimora, il luogo dove leggeva e scriveva. Il film di cui queste immagini cupe compongono la prima parte è intitolato La liberazione di Montechiarugolo. È l’unico film compiuto, girato e montato con le didascalie negli ultimi mesi della Guerra e verosimilmente nei mesi successivi alla Liberazione. Simbolismo della natura e la storia convergono a Montechiarugolo, il tempo ciclico ed eterno delle stagioni si sovrappongo agli ultimi momenti bellici. Con la primavera arrivano i partigiani e gli alleati. La guerra è finita e si comincia a ballare. Gli uccelli finalmente possono volare liberi.
Paolo Simoni, Antonio Marchi Cinesperimentalista (1940-1945), in M. Grasso, Cinema primo amore. Storia del regista Antonio Marchi, Kurumuny 2010.